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La difficile ricerca di un autonomismo democratico 

          I comunisti si trovarono a dover precisare la loro fisionomia in Sicilia su due temi di grande importanza: l'individuazione di un referente sociale e l'elaborazione di una linea autonomistica, precondizione, questa, per ogni tentativo di dialogo con le altre forze politiche.  La situazione di emergenza del dopoguerra, e la grande pressione sulla terra esercitata dai contadini come risposta al disgregarsi delle strutture tradizionali, obbligava il Pci a una scelta contadinista che lo spingeva paradossalmente a trascurare i problemi del proletariato agricolo e dei settori capitalistici dell'agricoltura sviluppata della costa: quella del latifondo diveniva la questione via via centrale di ogni ipotesi riformatrice, costringendo il Pci all'interno di una prospettiva piccolo-proprietaria.  Lo sbocco dato dalla Dc alle lotte con le leggi di riforma agraria (1949-50) avrebbe svuotato la forza del movimento contadino e privato i comunisti del loro interlocutore; ma la stessa precarietà della nuova proprietà avrebbe in ampie zone dell'isola vanificato gli effetti della riforma, dando l'avvio all'emigrazione di massa e allo svuotamento delle campagne. 

          Il Pci si arroccava dunque su una posizione difensiva, ben espressa dall'insistenza sui temi autonomistici.  Era questa un'originale variante dell'approccio della sinistra, tradizionalmente poco sensibile ai temi del decentramento, forzata però dalla logica degli avvenimenti che un'illuminata dirigenza aveva saputo cogliere, superando le diffidenze della base.  Il grimaldello regionalista sarebbe stato utilizzato anni dopo per spezzare dalla periferia l'unità della Democrazia cristiana. Non a caso la convergenza tra comunisti e cattolici si sarebbe verificata nell'ambito dell’operazione Milazzo (1958-1960). Silvio Milazzo, presidente di un governo regionale sostenuto anche dalle sinistre, rappresentava infatti la continuità di un ceto di notabili con forte radice locale, che aveva fatto scelte come quella della riforma agraria ma non era certo disponibile ad accettare la svolta impressa da Fanfani alla Dc e il dominio degli apparati centralizzati del partito. Con la scissione della Dc portata avanti dal movimento cristiano-sociale (che in un primo tempo ebbe notevole successo), la classe politica siciliana dimostrava la sua disponibilità a un'ultima resistenza e affermazione della propria identità sulla tematica regionalistica. L’adesione del Pci a questa operazione, pur motivata da un apprezzabile impegno anticlientelare, che si concretizzò nella denuncia delle convergenze tra mafia e Dc, avrebbe però dimostrato i limiti dell'approccio sicilianista di sinistra, sempre subalterno alle lotte tra varie frazioni del ceto dirigente locale ed incapace di elaborare una propria strategia di governo.

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  Sommario
   
  Miti di fondazione
  Il separatismo, un fenomeno congiunturale
  La repubblica siciliana e gli Alleati
  “Il fascismo malattia del Nord”
  L’ecosistema latifondistico
  Antonio Canepa e il sicilianismo dei ceti medi
  Gli alleati e la parentela normanna
  Mafia e ammassi granari  
  Il dibattito sul decentramento
  L’autonomismo di Enrico La 
 Loggia
  Il ritorno all’Italia
  Il Movimento indipendentista siciliano
  Le rivolte del “non si parte!”
  I decreti Gullo
  La difficile ricerca di un autonomismo democratico
  La nascita della Regione
  Portella delle Ginestre
  Il riparazionismo
   
   
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