NOTE DI REGIA

Il punto e virgola a separare ogni parola è un cratere tutto blu sulla superficie ruvida di pagine ingiallite tenute insieme con lo spago. Le lettere dattiloscritte sono gigantesche, le metto a fuoco una alla volta; sono ognuna l’esito di una battaglia e, quando la parola si compone, sembra che la guerra sia vinta, anche se il guerriero non può riposare, perché un’altra battaglia e un’altra guerra lo attende … la messa a fuoco è la nostra punteggiatura, a interpretare un ecosistema di parole storpiate, eppure coerenti ed efficacissime per la loro forza espressiva.

La lingua di Vincenzo Rabito è lingua di corpi, di sangue versato in guerra, di piedi scalzi e notti insonni e noi, accompagnati dal ticchettio della macchina da scrivere, solchiamo quel mare di parole per approdare sulle coste di terre vicine e lontane: Chiaramonte Gulfi, Ragusa, Regalbuto, ma anche la Slovenia, l’Etiopia, la Germania. Ho filmato parole e paesaggi usando lunghe focali, obiettivi che riescono a staccare la lettera dal foglio, per restituire il senso stesso della minuzia narrativa di Vincenzo Rabito.

Come un cantastorie, questo anziano cantoniere chiaramontano ha una visione epica di se stesso, paragona la propria “disonesta vita” a quella del Guerin Meschino, chiarendo al lettore che quel mondo di avventure cavalleresche è il nutrimento per sé e la sua autorappresentazione. Io l’ho assecondato: la voce fuori campo narra non l’uomo, ma ciò di cui l’uomo è portatore, l’immaginario. È un immaginario fatto di memoria, individuale e collettiva. Il timbro della voce ci restituisce un sentimento di intima adesione offrendoci fin da subito il punto di vista univoco di chi è insieme protagonista e spettatore.

Rabito attraversa a piedi un secolo, entrando di diritto nelle pieghe dei grandi eventi collettivi con l’inchiostro sgrammaticato della sua macchina da scrivere. Così facendo, sporca la Storia con la S maiuscola e insieme alla Storia, ci racconta la storia di una vita, di un uomo che in vecchiaia definisce la propria identità nell’urgenza del raccontare.

Per questo, mettendo le mani sulla memoria visiva degli italiani, ho contraddetto la versione ufficiale della storiografia per immagini per reinventare il significato di quei filmati in bianco e nero sporcandoli, a mia volta, d’inchiostro blu, verde, rosso, giallo. Così facendo ho voluto restituire un sapore pop e imporre alle visioni di regime un altro significato, un altro luogo narrativo. Rabito sapeva raccontare con ironia, sagacia e dolore. La stessa che ho voluto restituire attraverso questo lavoro di riappropriazione di senso di immagini solenni e talvolta arcinote come quelle di Mussolini. Così facendo la relazione con lo spettatore si basa sulla dialettica tra l’immaginario collettivo e una narrazione al singolare che diventa plurale perché riguarda ciascuno di noi. La memoria di ciò che siamo stati. C’è anche dell’altro: l’immaginario deve fare i conti con il lato oscuro, quello nascosto tra le pieghe di una Storia tutta al maschile. Con la precisione del cronista, Rabito racconta di aver preso parte a una violenza di gruppo nei confronti di una giovane donna alla fine della prima guerra mondiale. A distanza di sessant’anni ci fa rivivere quel momento senza chiedere perdono né sentirsi in colpa, consegnandoci pagine tanto scomode quanto scrupolose nella descrizione dell’orrendo atto di vendetta.

Nel film, dal punto di vista del linguaggio, ogni passaggio ha la sua specificità. Ho suddiviso il racconto in atti, giocando anche con la memoria cinematografica degli spettatori.

La prima guerra mondiale è strutturata come se l’intera sequenza fosse un film muto in cui le scene o gli atti sono separati dai cartelli in cui la parola si fa unità di misura, anche se sotto forma di idioma inventato o parole tuttattaccate: “Madrepadre”, per dire madrepatria, bomba, trincea, “vambadifuoco”.

L’esperienza dell’Africa coloniale come fosse un film di regime. Rabito assiste alla propaganda ma al tempo stesso contraddice la retorica fascista ponendosi come antieroe, facendo del suo essere uomo qualunque la bandiera della sua dirompente verità.

Con il passare dei decenni, il gioco visivo del film deve fare i conti con la storia recentissima, ecco che la nascita della televisione è raccontata attraverso una visita in quel circolo sulla piazza di Chiaramonte in cui ancora oggi gli uomini anziani si ricordano di serate affollate di famiglie intorno alla Tv.

Per arrivare ai ricordi in super8, in cui il mondo di Rabito diventa la sua famiglia e la “bella epica” di una gioventù piena di speranze per il futuro.

Nel realizzare Terramatta; ho accettato la sfida di mostrare ciò che non si vede, di filmare il fuori campo, l’invisibile, per rispettare, anzi esaltare, la potenza evocativa del testo. In questo modo ho cercato nell’oggi le tracce di ieri, filmando i luoghi come fossero abitati dal narratore. Muretti a secco e trazzere sono diventati mondi da rivestire di parole che, per il solo fatto di scorrere dentro flussi di proiezioni notturne, sembrano sbucare da una vecchia pellicola diventando esse stesse un ricordo. Terramatta; è quindi un film in soggettiva, che assume il punto di vista di Vincenzo Rabito: lui andava a piedi ovunque e io ho filmato le strade pensando a come le solcava lui. Strade lunghe e polverose, vicoli dolci e silenziosi. Un incedere ostinato e solitario, proprio come il ticchettio della sua macchina da scrivere.

Costanza Quatriglio