La quarta di copertina dell'edizione Einaudi 2007

Vincenzo Rabito è nato a Chiaramonte Gulfi nel 1899. «Ragazzo del 99», è stato bracciante da bambino, è partito diciottenne per il Piave, ha fatto la guerra d’Africa e la Seconda guerra mondiale. È stato minatore in Germania, poi è tornato in Sicilia dove si è sposato e ha allevato tre figli. È morto nel 1891.
La sua autobiografia ha vinto il «Premio Pieve – Banca Toscana» nel 2000, ed è conservata presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santa Stefano.
Un bracciante siciliano si è chiuso a chiave nella sua stanza e ogni giorno, dal 1968 al 1975, senza dare spiegazioni a nessuno, ingaggiando una lotta contro il proprio semi-analfabetismo, ha digitato su una vecchia Olivetti la sua autobiografia. Ha scritto, una dopo l’altra, 1072 pagine a interlinea zero, senza lasciare un centimetro di margine superiore né inferiore né laterale, nel tentativo di raccontare tutta la sua «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» vita.
Ne è venuta fuori un’opera monumentale, forse la più straordinaria tra le scritture popolari mai apparse in Italia, sia per la forza espressiva di questa lingua mescidata di italiano e siciliano, sia per il talento narrativo con cui Rabito è riuscito a restituire da una prospettiva assolutamente inedita più di mezzo secolo di storia d’Italia.
Imprevedibile, umanissimo e strepitosamente vitale, Terra matta ci racconta le peripezie, le furbizie e gli esasperati sotterfugi di chi ha dovuto lottare tutta la vita per affrancarsi dalla miseria; per salvarsi la pelle, ragazzino, nel mattatoio della Prima e poi della Seconda guerra mondiale; per garantirsi un futuro inseguendo (con «quella testa di antare affare solde all’Africa») il sogno fascista del grande impero coloniale in «uno miserabile deserto»; per arrabattarsi, in mezzo a «brecante e carabiniere», tra l’ipocrisia, la confusione e la fame del secondo dopoguerra; per tentare, a suo modo («impriaco di nobilità»), la scalata sociale con un matrimonio combinato e godere, infine, del benessere degli anni Sessanta, la «bella ebica» capitata ai suoi figli… ritrovandosi poi sempre, o quasi sempre, «come la tartaruca, che stava arrevanto al traquardo e all’ultimo scalone cascavo».
Eccolo qui, dunque, il libro di Rabito, proposto per la prima volta al pubblico in una versione ridotta ma esattamente come lui l’ha scritto, senza cambiare neppure una parola di quelle che l’autore ha scolpito, a fatica, nell’ultima battaglia della sua guerreggiata esistenza.