Le 7 lezioni | Autori | Credits | Home | Email

 

 

 

 

Pupi e paladini  

Per sintetizzare la vocazione tragicomica del siciliano, è più opportuno guardare al teatro, alla maschera di un attore: Angelo Musco, la stessa in cui si riflettono la faccia appassionata e un po’ convenzionale della Sicilia, che era stata già del grande Giovanni Grasso, e il retaggio dell’opera dei pupi, in cui la povera gente proiettò per anni il proprio bisogno d’evasione da una realtà che ancora non ci appaga. Commedia e tragedia, dunque. L’anima del siciliano che si rivela sempre estrema e contraddittoria: ora servile Proteo che sopporta le ferite della Storia e dei regnanti, ora pupo-paladino che si riscatta attraverso il riso gioioso, rituale, isterico, che non ha nulla a che vedere con la comicità, ma sale dal basso, si oppone al «serio», come il riso di Aristofane o di Rabelais, di Shakespeare o di Gogol, ed esprime la protesta di coloro che non hanno voce. Diceva Pirandello, parlando di Verga, che “tutti i siciliani in fondo sono tristi perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita”, volendo significare che essi avvertono intensamente quel contrasto tra un animo naturalmente chiuso e diffidente e una Natura “intorno, aperta, chiara di sole”, che acceca fino a togliere la capacità di vedere, rivelando in ogni gesto e in ogni parola un “dolore spesso disperato”. E nel senso del tragico dei siciliani si stratificano generazioni ribollenti di collere antigovernative, di disperati e astratti furori ma anche, purtroppo, di altrettanto repentine e umilianti sottomissioni.

Scriveva il siracusano Sebastiano Aglianò che è difficile incontrare in Sicilia personalità complete e riposanti, vale a dire uomini sicuri di una pace interiore, sicché anche l’umorismo siciliano ha qualcosa di nervoso o di amaro. I siciliani sono, infatti, da sempre avvezzi a un senso luttuoso dell’esistenza, ma fra il tragico e l’idillico, che sono i due veri poli dell’anima isolana, si insinua di tanto in tanto un temperato umorismo, che facilmente si esaspera in grottesco e che raramente è derisione - e difatti il siciliano sa essere auto-ironico -. Piuttosto è espressione di benevolenza, percezione di armonia, sentimento di espansione vitale.

Una siffatta implicazione vitalistica, cioè l’istinto insopprimibile di riaffermare, periodicamente e simbolicamente, il “principio del piacere” sul “principio della realtà”, unita allo spirito mistificatorio, alla spiccatissima vocazione teatrale del siciliano, spiega quel tanto di profano e di carnevalesco che affiora anche nelle manifestazioni più autentiche del sentimento religioso; basterebbe assistere almeno una volta a una processione di Sant’Agata o a un festino di Santa Rosalia per rendersene conto. Quello stesso sentimento della vita, che certo non ignora la dimensione ludica e festiva, gioiosa e sensuale, quasi sempre nasconde, infine, un risvolto malinconico e acre, luttuoso e tragico: l’anima del tragidiaturi, vale a dire colui nel quale prevale la “scienza del peggio”, una visione delle cose risentita e perplessa e che ritorna, più o meno invariata, nei principali esponenti della letteratura isolana, da Verga a Pirandello, da Brancati a Lampedusa. Ma chi capì meglio il modo di esprimere la malinconica apatia e la solare seduzione di questa natura fu forse Nino Martoglio quando cercò di dar vita a un teatro diverso da quello portato in giro da Giovanni Grasso: non più drammi truculenti di gelosia e di sangue, ma opere originali in cui il comico si mescolasse col tragico e tutti gli aspetti della realtà fossero fedelmente riprodotti. Perché un’operazione del genere avesse successo occorreva un grande attore che con la voce, i gesti, la mimica del volto, fosse in grado di passare subitaneamen­te dalle lacrime al riso: e quest’attore fu appunto Angelo Musco.

Nella sua comicità, come scrisse Sciascia, c’era “come un margine di intraducibilità; un mar­gine che si restringe e quasi scompare […] per una eclatante vitalità, per il suo assommare e sintetizzare il comico della vita così come Giovanni Grasso, in un teatro di Odessa, parve al giovane Isaac Babel assommarne e sintetizzarne il tragico”.

...:::: torna su
...::::
vai paragrafo successivo
...::::
vai paragrafo precedente
...::::
torna al sommario della lezione

 

    Sommario
   
    I cavalli di Platone, ovvero del divergere e del convergere
    Sotto il segno dei gattopardi
    Pupi e paladini  
    Il parlar d’amore
    La galassia mafiosa, ovvero: ne uccide più la penna o la lupara?
    L’invenzione della Sicilia
     
     
    Autore
    Bibliografia
    Glossario
   
    Home
    Email
  

 

 Sito ottimizzato per una visualizzazione a 800x600

 
 
 

A cura di Cliomedia Officina Srl e della Regione Siciliana
Policy Privacy