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Il parlar d’amore  

Esiste un “amore siciliano”? E’ vero che in Sicilia il verbo «amare» ha una propria e inconfondibile coniugazione? E se l’amore siciliano è un’altra cosa, in sostanza cos’è? è forse quel frizzante profumo di “rosa fresca aulentissima” che Cielo d’Alcamo fece respirare alla primitiva letteratura italiana, o quel sapore di sangue che restò in bocca quattro secoli fa a Laura La Grua, baronessa di Carini, e al suo amante Ludovico Vernagallo, turbando i sogni di qualche fanciulla malmaritata, più dell’“amor ch’a nullo amato amar perdona” cui ammonivano dai banchi di scuola Paolo e Francesca?

Dove sono, allora, i nostri Romeo e Giulietta, chi sono i nostri Werther e Carlotta? Essi non abitano più qui, anzi non hanno mai abitato qui, dove abbondano invece le Mena Malavoglia, le Sant’Agate che le disgrazie familiari fanno silenziosamente rinunziare all’amore, al matrimonio con gli Alfio Mosca, per votarsi a una verginità forzata, rimettendo discretamente e pudicamente alla treccia le spadine d’argento che le erano state tolte a suo tempo dagli amati per poterle spartire i capelli sulla fronte. O vittime sacrificali d’ogni beffa del destino, d’ogni accanimento del fato, che quando si ribellano o vogliono uscire dal cerchio della loro condanna, quando rompono con la legge dei costumi e le regole della società, perché spinte dalla forza dell'istinto o da quella del sentimento, sono relegate ai margini, fuori dal paese, fuori dal consorzio umano, fuori dalla vita stessa come la Lupa o l’amante di Gramigna.

Ma l’amore siciliano è soprattutto una miniera di affetti familiari: madri-angeli che portano i segni del dolore che annienta, della pena che pietrifica; mute e solitarie vanno sempre cercando il figlio morto nel naufragio di qualche Provvidenza e continuano a cercarlo anche oggi - madri-coraggio - nel mare sempre tempestoso della mafia e della violenza. L’amore siciliano, dunque, è un’altra cosa, ma cosa lo fa essere così appassionato e al contempo casto, così tragico e perturbante? Forse il fatto che è Teatro, e che il suo palcoscenico è la Vita. Che cos’è, infatti, l’amore siciliano che ci viene subito in mente se non un Rito, un copione tramandato di generazione in generazione: quello delle ormai obliate serenate sotto i balconi adorni di gerani, o delle spettacolari fuitine, non di rado con la tacita compiacenza delle rispettive famiglie interessate, dei duelli rusticani di tanti Alfio e Turiddu, dietro una siepe di fichidindia. Che cosa, se non l’interminabile e insostituibile piacere brancatiano del «discorrere sulla donna», seduti al tavolino di un caffè, come un conciliabolo di impenitenti dongiovanni dediti a inseguire un fantasma di donna, a cercarlo in ossessive fantasticherie, vantando patetici trionfi da “ingravida-balconi” e delizie di incontri fugaci o convegno solitari. Salvo a tornare a casa, acquattati come scarafaggi in una straducola oscura, per contemplare stilnovisticamente, come novelli Petrarca, finestre socchiuse dietro cui battono i cuori di angeli di ragazza che non sfiorerebbero mai, nemmeno con una rosa fresca e aulentissima.

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    Sommario
   
    I cavalli di Platone, ovvero del divergere e del convergere
    Sotto il segno dei gattopardi
    Pupi e paladini  
    Il parlar d’amore
    La galassia mafiosa, ovvero: ne uccide più la penna o la lupara?
    L’invenzione della Sicilia
     
     
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